La ballata del CORAGGIO

LA BALLATA DEL CORAGGIO  

(La favola di Celestino)

Con Roberto Mascioletti

Regia musiche e drammaturgia di Eugenio Incarnati

Pupazzi e burattini di  Marcello Salvatore e Roberta Bucci

teatro l’aquila celestino v

“Con il pretesto di riferire un fatto stravagante ed assurdo (benché vero), cioè il trafugamento ripetuto e perpetrato nei secoli delle spoglie di Papa Celestino V, si racconta una favola per tutti.

Celestino, si sa, da vivo non amava la vita comoda…  Il fatto strano è che non ha mai riposato troppo nemmeno da morto: fu seppellito, po riesumato,spostato, portato e riportato di qua e di là…

Che sia lui che di tanto in tanto vuole alzarsi e andare in giro perché ha ancora qualcosa da fare?

E’ una storia che, aquilana ed abruzzese quanto poche altre, assurge ad una dimensione epica che travalica ogni confine, anche quello tra la vita e la morte.

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Recensione di Giulia Rossi:

Un inizio inaspettato: qualche raccomandazione, la raccolta di qualche pezzetto di carta, preferibilmente colorata, uno squillo di tromba e lo spettacolo comincia.

Un vecchio motivetto del TG apre la finestra su una storia antica, importante, misteriosa che ha innalzato la città dell’Aquila alla gloria pontificale: l’incoronazione di papa Celestino V presso la Basilica di Collemaggio, il 29 agosto 1294.

La storia del papa “aquilano” è rivissuta tra realtà e finzione, in un funambolico intreccio di registri linguistici, tecniche espressive e artifici teatrali.

In un mondo di giocolieri e saltimbanchi, tra tono epico e sensibilità popolare, prende corpo una riflessione filosofica che contrappone due differenti interpretazioni di uno stesso evento: l’abdicazione di papa Celestino V. Dante lo accusa di ignavia e lo condanna alle pene descritte nel III Canto dell’Inferno; Francesco Petrarca invece lo considera “uno spirito altissimo e libero”, che non conosce imposizioni e che non tollera compromessi.

L’umana pietà per un peccato tanto comune agli uomini sposta i termini del discorso su un altro aspetto della storia. Dopo l’abdicazione Celestino morì, prigioniero, nella rocca di Fumone in Ciociaria; nel 1313 fu canonizzato e nel 1317 le sue spoglie furono traslate a L’Aquila, nella basilica di Santa Maria di Collemaggio. Nel 1988 la sua salma è stata trafugata.

Da chi? Perché? La ricerca della verità è un bisogno tanto forte e radicato nell’uomo esige soddisfazione.

Tutti cercano; le potenze costituite, come marionette di un potere occulto, si mettono all’opera ma si arrestano davanti ad un mistero che sembra irrisolvibile.

“Chi ha rubato la salma di Celestino? Non lo so”, questa è la risposta ultima che non può soddisfare il senso identitario di un popolo. Di contro all’inesorabilità dei risultati, all’atteggiamento arrendevole, remissivo, condiscendente del sistema, la devozione popolare tenta un’altra strada, chiama al rapporto le potenze del cielo e, all’improvviso, il mistero è sospeso: la salma torna nella sua urna.

La storia di Celestino diventa metafora di una condizione esistenziale: non indolenza ma rifiuto del compromesso, scelta consapevole di una dimensione contemplativa e spirituale aliena dai fasti e dalle strategie del potere; non rassegnazione, adeguamento incondizionato ad una volontà superiore, ma ricerca costante della verità spesso celata, confusa, distorta.

Il CORAGGIO di riappropriarsi del proprio essere, della propria dimensione personale e spirituale, della propria identità presuppone una cultura condivisa, un comune modo di sentire, una partecipazione responsabile e risoluta alla propria storia e alla storia umana. Coraggio individuale e collettivo per contrastare lobby e poteri occulti, per riconquistare una dignità offesa e per affermare un orgoglio popolare.

In questa storia surreale l’elemento “sorpresa” gioca un ruolo importante. L’unico, poliedrico interprete entra in scena rompendo la quarta parete: parla con il pubblico, lo incita alla partecipazione, anima le marionette, assume di volta in volta ruoli differenti.

Con semplicità e consequenzialità sembra estrarre dal cilindro del mago ogni sorta di artificio tecnico ed espressivo atto a sostenere la scena e a stimolare progressivamente una sensibilità che muove al riso e al pianto, contemporaneamente.

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L’universalità della riflessione è caratterizzata dall’accostamento di piani e registri differenti: tra spazi umani e soprannaturali, storia e leggenda, realtà e fantasia, individualità e coralità si dipana il filo conduttore di questo racconto, espresso ora con un linguaggio aulico ed importante, ora in dialetto, affidato ad una recitazione dai differenti timbri vocali e ad una gestualità che assume un forte potere evocativo; il tutto in un ritmo a volte incalzante e a volte disteso, in un gioco di luci e di ombre: è TEATRO.

Giulia Rossi

clip: http://www.youtube.com/watch?v=yqEJI1paan8

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SE VUOI UNA CITTA’, INVESTI SUI TEATRI

di Eugenio Incarnati

1-2-2021

Se vuoi rimettere in piedi una città, c’è certo da lavorare con materiale da costruzione. Se poi vuoi anche che essa sia abitata, vissuta, amata, considerata veramente “città”, allora devi portare calce e mattoni anche verso i  luoghi di arte e cultura. Non si scappa. 

Ce lo dicono anche i numeri.

 I dati SIAE  degli ultimi anni  parlano chiaro: dove ci sono teatri che lavorano, lì c’è un territorio vivo; infatti la Lombardia è la Regione nella quale si fanno più spettacoli (776,9), seguita dal Lazio (541,2 mila) e l’Emilia-Romagna (379,5 mila- dati 2019). 

Il settore conta molto anche per l’economia: il  giro di affari degli spettacoli dal vivo, raggiunge, in Italia, quasi i sette miliardi di euro. Un settore rilevante, direi, anche considerando che la maggior parte dei lavoratori dello spettacolo costano poco e rendono molto.

I dati del 2020, alla data del presente articolo, non ci sono ancora,  ma quando saranno disponibili, testimonieranno dei molti  sforzi fatti (senza generare contagi) nei periodi brevissimi in cui è stato consentito fare spettacoli e concerti.

Ma viene prima l’uovo o la gallina? Viene, cioè, prima il teatro o lo sviluppo globale? Le due cose vanno a braccetto, perché il mondo dello spettacolo dal vivo è anch’esso uno dei settori dello sviluppo e, come tale, genera, se florido, sviluppo globale.

A L’Aquila, poi, (dove viviamo e lavoriamo) s’è visto chiaramente: dopo il terremoto, la programmazione culturale si è rivelata (o confermata)  strumento fondamentale per dare nuova vita alla città.

Negli anni, la nostra città, per la cultura, ha già ottenuto molti fondi e di sicuro ne otterrà ancora. Ma allora il malessere, nei pochi lavoratori dello spettacolo qui sopravvissuti, dipende solo dal Covid che blocca tutto? Dov’è il punto? Di cosa ci lamentiamo? 

Ci lamentiamo, ad esempio, dell’ utilizzo delle risorse in senso centrifugo (eccezion fatta per alcuni validi sforzi istituzionali);  e poi  della scarsissima attenzione verso “i luoghi” del teatro, praticamente ignorati (!) dalla ricostruzione.

I teatranti, però, non vogliono parlare solo di economia e mattoni. Si sa, sono figure poetiche.

Proviamo, allora (pur brevemente),  ad approfondire, per capire se è vero che il “teatro” sia utile, se è vero che esso svolge funzioni “riconosciute” che travalicano gli aspetti del mero intrattenimento commerciale.

C’è, da un lato, l’ esperienza collettiva (del pubblico) della fruizione di uno spettacolo dal vivo. Espressione tipica, esclusiva della nostra specie (sviluppata in epoche di grande avanzamento), veicola contenuti culturali e simbolici. Con lo spettacolo si sono instaurate  abitudini civili (cioè tipiche della città), mai più abbandonate. E basterebbe questo a dimostrare che senza teatri, non c’è città.

C’è, poi, il valore della esperienza della “pratica teatrale e artistica”: nelle scuole, nei centri diurni, nei centri anziani, nel mondo dell’inclusione e della promozione dell’agio sociale (e persino nella formazione aziendale), c’è un fiorire (Covid permettendo)  di attività e progetti innovativi che si avvantaggiano, a fini formativi, delle figure degli artisti, teatranti in testa.

Sia se si parli, dunque, del primo  aspetto (l’esperienza del pubblico), che del secondo  (la pratica teatrale ed artistica), non si può non concludere che questo mondo merita più attenzione da parte delle istituzioni. 

I teatranti non chiedono molto: solo di elevare gli standard del loro lavoro che attualmente sono, notoriamente, bassissimi.

Calandoci nella realtà del nostro territorio,  in cui la crisi è ormai strutturale, investire  nei teatri e negli artisti  significa molte cose: significa lavorare per popolare e qualificare la città, facilitare il lavoro  di  bar, ristoranti, negozi e mercati, rafforzare un settore non irrilevante per l’economia e, dulcis in fundo, valorizzare dei lavoratori che danno olio ai cardini della vita civile e  promuovono benessere…

Sarebbe bello parlarne ancora. Avere  assessori che rispondano a queste sollecitazioni, magari, aiuterebbe.